(a pesca nel fiordo di Sermilik, Groenlandia orientale)
Praticata da oltre mille anni in equilibrio armonico tra il proprio sostentamento e la sopravvivenza delle specie, quali foche, balene e orsi bianchi, la caccia per questa popolazione ha sempre rappresentato, specialmente quella alla foca, l'unico elemento di sussistenza possibile. Paul Victor, l'esploratore ed etnologo francese che ne studiò attentamente lo stile di vita negli anni 1930, non a caso definì la loro Civiltà della foca.
La caccia è l'elemento centrale della cultura Inuit, essenzialmente un atto sociale con ben precise regole di spartizione del cacciato, a ricordare che l'animale ucciso non è di proprietà del cacciatore che lo ha colpito, ma un dono offerto dalla Natura a tutta la collettività. Per questo deve venire condotta con parsimonia, e ogni parte dell'animale ucciso utilizzata, sia per necessità materiale, ma soprattutto ad evitare che una vita sia stata spenta invano.
Intorno ad essa gravita tutta una serie di atti che non hanno nulla a che vedere con la caccia così come la intendiamo noi occidentali, cioè un arido insieme di tecniche atte a catturare la preda. Per gli Inuit la caccia è un'attività che, in funzione della manifestazione sacrale che rappresenta, deve svolgersi secondo regole ben precise, e deve essere praticata solo da coloro che, mostrando rispetto verso il predato, riconoscono con umiltà la potenza superiore della Natura.
Da qui prende vita una serie di rituali che devono essere svolti prima e dopo l'uccisione dell'animale: allo squalo ucciso viene praticato un buco nella fronte per permettere all'anima di uscire e di liberarsi nell'immensità, mentre alla foca bisogna versare in bocca una manciata di acqua dolce. E, soprattutto, bisogna chiedere perdono all'animale per averlo ucciso, e occorre spiegargli le motivazioni che hanno portato a privarlo della vita, ponendogli ben chiara che è stata la necessità di averlo cibo per se, per la propria famiglia, per la collettività, ad imporne l'uccisione.
Solo così il sacrificio di una vita non sarà stato una inutile barbarie, ma avrà fatto parte di una necessità cosmica, e le forze della Natura, non incollerendosi per l'uccisione, consentiranno ancora a tutta la comunità di avere cacciagione per la sopravvivenza.
Ed è questo principio di reciprocità - il cacciatore che rispetta i frutti della Natura, e la Natura che in cambio del rispetto ricevuto premia il cacciatore concedendo nuovamente se stessa - che ha permeato tutta la cultura Inuit, permettendo a questa popolazione di sopravvivere alle carestie più terribili. Infatti ogni uomo sapeva che, se una volta esaurito il proprio cibo avesse bussato alla porta del vicino chiedendo aiuto, avrebbe potuto condividere con lui qualche boccone. Il che gli avrebbe garantito qualche giorno ancora di sopravvivenza, lasciandogli la speranza di un futuro più sereno.
Ideale, questo, impresso nelle culture delle popolazioni che vivono in ambienti difficili: è il principio della solidarietà e della condivisione, fondamentale per la sopravvivenza, che fra le popolazioni andine assume un carattere sacro, diventando l'Ayni, la condivisione di ciò che si possiede.
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